Intervista a Gianluca Fava

Napoli- Da Il Mattino del 6/4/2010
Come si fa a vivere da non vedente te lo spiega con il sorriso sulle labbra. Senza neppure un pizzico di livore o commiserazione e con una buona dose di ironia.

Come si fa a diventare penalista titolare di uno studio privato, nella città dei finti ciechi e dei falsi invalidi a spese dello Stato, te lo racconta senza troppi fronzoli: «Volontà, forza d’animo, una famiglia compatta. Anche se dispiace sapere che tante risorse pubbliche vengono sprecate per finti invalidi, che sottraggono risorse a chi è costretto a vivere con handicap, problemi enormi e reali. Ben vengano le inchieste, ma chiedo sensibilità da parte di tutti: chi lucra sui soldi destinati a persone con handicap, commette reato due volte, è ovvio».

Trentotto anni, studi classici, una laurea in Giurisprudenza: Gianluca Fava è forse l’unico caso di penalista non vedente a Napoli, in grado di mettere su uno studio privato e di competere ogni giorno con gli ostacoli di un distretto tanto competitivo come quello napoletano. Racconta la sua storia, dopo aver letto (grazie a un computer parlante) delle inchieste sui finti ciechi napoletani, quelli per intenderci immortalati mentre intascavano la pensione da non vedenti guidando auto sportive o con il giornale sotto il braccio.

Un sacco da nove milioni di euro, che fa calare un velo di nostalgia sul volto di Gianluca, a chi non vedente lo è per davvero ed è costretto a fare i conti con burocrazia lenta e un contributo statale (mille euro per accompagnamento e software necessari per la professione) decisamente di basso profilo: «È triste tutto ciò. La truffa dei finti ciechi è triste. Penso a quante persone avrebbero bisogno di un sostegno materiale per realizzarsi, per superare handicap gravi e invalidanti. Non parlo solo di me, perché grazie alla mia famiglia, alla straordinaria partecipazione di mia mamma (che oggi non c’è più) e di mia sorella Patrizia, sono uscito da un destino di isolamento e di chiusura».

Dietro la scrivania della sua casa-studio a Capodimonte, Gianluca Fava si racconta. E lo fa da una postazione che basterebbe da sola mostrare sacrifici e successi vissuti negli anni: un computer «parlante», che grazie a un (costoso) software traduce testi in parole. Un clic del mouse e una voce metallica recita articoli di giornale, sentenze, articoli di legge. Poi, una tastiera con tanto di «barra braille», sintesi foniche anche da telefoni e cellulari. Un mondo vivo, frutto di sacrifici enormi, impensabili per chi è alle prese con la realtà ordinaria di una persona «normale».

La storia di Gianluca Fava inizia quando aveva quattro anni: inciampa, batte la testa a terra. Nessun problema, almeno stando alla frettolosa (ed errata) diagnosi dei medici: che non si accorgono di un ematoma che cresce al punto tale da colpire, in modo irreversibile, il nervo ottico. «Da allora, da quell’errore medico, sono cieco», racconta Gianluca: «Da allora, non mi sono mai arreso e ho preteso di non rinunciare a niente senza prima provarci: ho imparato ad andare in bicicletta, sui pattini, a nuotare. Devo tutto a mia madre, che non mi ha mai trasmesso paura e mi ha sempre dato serenità: mi ha sempre detto, ”si può fare, ma con attenzione”. È così che sono sfuggito all’isolamento, al ripiegamento su un destino scontato, con mestieri assistiti da insegnante di musica o da centralinista (lo dico con il dovuto rispetto per queste due attività)».

Sereno, autoironico: ripensa agli anni del classico, tra i banchi del Genovesi, alla continua «richiesta di partecipazione» agli insegnanti e ai compagni di banco: «Mia madre è stata la lettrice della mia carriera scolastica e universitaria. Mi dettava ogni cosa, in modo che riuscivo a tradurre in segni braille. Avevo un lettore anche per il greco e il latino, lavoravamo fino a notte per riuscire ad entrare nel vivo della lezione da studiare». Poi, l’università, Giurisprudenza, la passione che nasce grazie alle ore trascorse da ragazzino ad ascoltare il processo Tortora su Radio Radicale: «All’università è stata una catena di montaggio: mia mamma, mia sorella, parenti ed amici leggevano e registravano gli esami. Chiunque entrava in casa mia, accettava di buon grado a registrare qualche pagina. Fu un lavoro di squadra perfetto».

Traguardi che diventano punti di partenza: «Da praticante penalista devo tutto all’avvocato Bruno Larosa: mi accolse nel suo studio, mentre tanti altri mi fecero capire che non volevano affidarsi a un non vedente. Era come se avessi avuto la lebbra». Poi, il primo incarico, la prima volta in aula e «le gambe che mi tremavano. È stato ancora l’avvocato Larosa a battersi per farmi avere il computer speciale con cui lavoro bussando al Consiglio dell’Ordine degli avvocati». Da allora nessun altro interessamento – spiega – «tranne in periodo elettorale, mentre spero che il mio racconto possa raggiungere chi è in difficoltà. E che possa toccare chi imbastisce truffe allo Stato alle spalle di chi è alle prese con handicap reali».

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